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Attualità

Kazakistan: cosa c’è dietro

la rivolta e l’intervento russo

13 Gennaio 2022,  di Maddalena Tulanti

Il prestigioso centro studi Carnegie di Mosca, considerato da tutti indipendente, aiuta a riflettere sulla rivolta popolare contro i rincari del gas in Kazakistan e sul successivo intervento repressivo delle truppe russe che ha portato al tramonto del regime di Nazarbaev e all’ascesa di Tokaev .

Ora che sembra stia tornando tutto alla (quasi) normalità in Kazakistan, con le truppe russe che si preparano a rientrare a Mosca per lasciare ai governanti locali il compito di risolvere i problemi di stabilità e di sicurezza, si può provare a ragionare su che cosa sia accaduto nei giorni scorsi in questo immenso paese dell’Asia centrale (19 milioni di abitanti, poco meno di 3 milioni di km quadrati di superficie, il nono per estensione nel mondo), stretto fra le pulsioni imperiali turche e cinesi, ma profondamente legato alla storia, alla politica e alla cultura della Santa Madre Russia.

Che cosa sia accaduto e perché lo descrive bene l’analisi del prestigioso Carnegie di Mosca, un centro studi considerato oggettivo e indipendente e per questo stimato anche dai circoli putiniani. L’analisi degli studiosi Aleksander Gabuev e Temur Umarov, entrambi specialisti dell’area, parte ricordando che fino ai primi di gennaio, quando è scoppiata la rivolta, il Kazakistan era considerato a Mosca un vero modello politico ed economico, dove l’autocrazia avanzata aveva trovato il punto di equilibrio sognato da tutti i governanti che non considerano inevitabile indossare il vestito della democrazia per partecipare al gran ballo delle Nazioni perbene.

In pochi giorni, dal 2 gennaio, questo credito è stato cancellato da un terremoto che pure era prevedibile e che però anche i più attenti osservatori avevano sottovalutato: l’aumento vertiginoso del costo del gas liquido, il gpl. I prezzi sono raddoppiati nel giro di poche ore, una decisione accompagnata dalla spiegazione che era il mercato a comandare e non più il governo. Se si pensa che il 90% dei trasporti kazaki utilizza il gpl per funzionare e che esso è presente nel 70% delle abitazioni, si comprende quanto sia stata determinante questa miccia per far esplodere l’incendio. Perché ovviamente l’inflazione del carburante ha avuto come effetto collaterale quello di fari aumentare anche i prezzi dei generi alimentari e quindi del resto dei prodotti. E la pandemia ha dato il colpo di grazia ai ceti più poveri impedendo, con i lockdown, la migrazione interna fra centri piccoli e grandi città che aveva fino al 2020 tenuto sotto controllo il tasso di disoccupazione. Tutto ciò in un contesto di generale calo del prezzo del petrolio che rendeva impossibile al governo intervenire con sussidi e sostegni.

Questo, insomma, il contesto economico in cui si sono verificate le sommosse, spiegano i due analisti. Sommosse che, fra l’altro, erano già avvenute negli ultimi tre anni, tra il 2018 e il 2021, e in un numero ragguardevole: almeno 1.300, esplose soprattutto nella ex capitale Alma Aty, quasi 2 milioni di abitanti, la città considerata più vivace e sensibile alle sirene dei liberali.

La politica a questo punto ha seguito l’economia. Quello che è accaduto in Kazakistan negli ultimi giorni è stato straordinario per due motivi. Primo, perché la rivolta ha affondato uno dei più longevi potentati ex sovietici, quello del presidente Nursultan Nazarbaev, da 30 anni al potere. Secondo, perché tutto è accaduto grazie all’intervento delle truppe di Mosca, chiamate dal successore in carica, Kasym-Jomart Tokaev. Nel chiedere aiuto ai fratelli maggiori, Tokaev si è appellato al trattato di mutua assistenza militare denominato “Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva”, più noto con la sigla anglofona Csto, firmato allo scioglimento dell’Urss, nel 1992, e del quale oggi fanno parte sei membri: Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Tagikistan e Kirghizistan.

Buffo è che il presidente di turno di questo organismo sia oggi il capo del governo armeno, Nikol Pashynian, al quale Mosca rifiutò un intervento simile due anni fa, quando l’Armenia si confrontava con l’Azerbaijan per il controllo del Nagorno Karabakh: altro contesto, altre priorità. Altrettanto curioso è che fino allo scorso anno abbia fatto parte del Csto l’Afghanistan e che un membro in attesa di entrare nell’organismo sia l’Iran. Il “Grande gioco” in Asia centrale ha ancora il profumo dei grandi conflitti fra gli imperi del XIX secolo: alcuni protagonisti sono usciti di scena, come la Gran Bretagna; altri, come la Russia, hanno solo cambiato veste, ma gli interessi in gioco sono sempre gli stessi.

Tornando ai nostri giorni, perché Putin ha detto sì per la prima volta all’utilizzo del trattato? Perché ha accettato l’invito di Tokaev e ha inviato circa 2.000 soldati per aiutare un Paese amico a schiacciare i rivoltosi e riportare la stabilità? A sentire lui lo ha fatto perché – come ha spiegato all’agenzia di stampa Sputnik – la Russia “non permetterà mai rivoluzioni colorate alle sue porte”, alludendo all’arancione dell’Ucraina. Il Presidente russo ha aggiunto poi che in Kazakistan è stato portato un vero attacco allo Stato e che quelle iniziate come proteste pacifiche contro l’aumento dei prezzi del gas si sono rapidamente trasformate “in violenti disordini e atti di terrorismo” che “non sono né il primo né l’ultimo tentativo di intromettersi nella regione dall’estero”.

Ma la verità è che lo ha fatto perché ha un sacco di gatte da pelare in Europa (Bielorussia, Ucraina, la stessa Russia) e non si può permettere di avere molestatori anche in Asia. Abbiamo accennato alle pulsioni imperiali di Turchia e Cina in questa area: sia Erdogan per motivi politico-culturali (i kazaki parlano una lingua turca) sia Xi per ragioni geopolitiche (la regione ribelle Xinjiang, quella degli uiguri, confina con il Kazakistan) sarebbero più che felici di esercitare la propria influenza sul Paese. Per questo, con un intervento rapido e (per il momento) indolore, Mosca ha riaffermato la propria autorità.

Quanto alle conseguenze interne per il regime kazako, sono altrettanto travolgenti. Tokaev ha rotto il dualismo che lo accomunava a Nazarbaev dal 2019, quando il vecchio leader, oggi 81enne, lo scelse per iniziare l’operazione della successione. In questi ultimi giorni Tokaev ha fatto piazza pulita del cerchio magico dell’ex presidente, licenziando nell’ordine il capo del governo, il vicecapo della sicurezza nonché nipote del vecchio leader, il numero uno dei servizi segreti interni ed esteri e un bel po’ di funzionari importanti, uno per tutti l’ex presidente della Banca centrale del Paese. E, per ultimo, allontanando lo stesso Nazarbaev dalla poltrona più importante, quella di Capo del Consiglio di sicurezza, incarico che l’ex presidente aveva voluto tenere per sé.

Insomma – come sostengono gli analisti del Carnegie – se Tokaev non ha organizzato la rivolta, di sicuro ha saputo cogliere l’occasione per beneficiarne, facendo fuori l’intero nucleo forte dell’ex regime con il quale aveva dovuto scendere a patti al momento della nomina. E così la lunga vita del sistema di Nazarbaev è finita: “Elbasy” il Magnifico, come si era fatto chiamare, esce di scena sul serio.

Tutti alla fine sono felici e contenti, Mosca più di tutti. Putin si è fatto un amico più forte, giovane e moderno in Kazakistan, ha dimostrato che solo la Russia può garantire la stabilità e la sicurezza nell’Asia centrale e, soprattutto, ha ridato vita al Trattato militare Csto, che ora non esiste più solo sulla carta. È un pericolo? La Russia interverrà ancora? Difficile dirlo. Chi conosce Putin sa che non lesina minacce (vedi il dispiegamento di forze nel Donbass per mettere pressione all’Ucraina e ai suoi amici occidentali), ma anche che difficilmente farà un passo dal quale non potrebbe più tornare indietro.

Maddalena Tulanti

Napoletana, ha fondato nel 2000 e diretto fino al 2015 il Corriere del Mezzogiorno Puglia, dorso locale del Corriere della Sera. Laureata in Russo con il massimo dei voti presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, esperta di politica internazionale, ha vissuto in Francia e in Russia. Inviata di guerra per l’Unità: nel 1994 è stata la prima giornalista italiana a trovarsi in Cecenia durante l’invasione dei russi e l’unica ad aver intervistato il presidente ribelle Dudaev nel bunker del palazzo presidenziale assediato dai carri armati di Mosca. Al rientro dalla Russia nel 1998 è nominata inviata speciale per seguire gli eventi più eclatanti in patria (l’alluvione di Sarno) e all’estero (la guerra del Kosovo). In seguito viene nominata caporedattore centrale del giornale. Lo resterà fino alla chiusura del quotidiano avvenuta il 2 luglio del 2000. Nell’ottobre dello stesso anno è a Bari per aprire il dorso del Corriere della Sera.